Francesco Paolo Oreste: scrivere per una società migliore

(di Francesca Carlucci

Quando lo sguardo investigativo sulla realtà quotidiana si incontra con la scrittura non può che nascere un connubio volto a riflettere sulle problematiche della nostra società. È quanto avviene leggendo lo scrittore Francesco Paolo Oreste, ispettore della Polizia di Stato del commissariato di Pompei che, attraverso i suoi libri - Mi sono visto di spalle che partivo (Pensa Multimedia, 2010), Dieci storie sbagliate. Più una (Il Quaderno Edizioni, 2014), Il cortile delle statue silenti (Pensa Multimedia, 2015), - ha fatto delle tematiche sociali un punto di forza.



Nel suo ultimo libro, "L'ignoranza dei numeri. Storia di molti delitti e di poche pene" (Baldini+Castoldi, 2019) l'ispettore Giulietti indaga appunto sull'ignoranza dei numeri. Anche lei, nel suo medesimo lavoro, si trova ad affrontare la stessa situazione?

Le mie storie sono quasi tutte parte di verità nel senso che la maggior parte delle dinamiche e delle emozioni che sono raccontate hanno a che fare con quello che mi succede e incontro durante il mio lavoro visto che per motivi professionali certe cose le devo vedere per forza e in certi momenti, quando c’è la necessità che intervenga la polizia, viene messa anche da parte la vergogna, la paura e tutto quello che normalmente ci tiene fuori da certe stanze o da certe cose. Al tempo stesso, quando poi diventano un’unica storia, diventano la storia che provo a costruire, le romanzo, nel senso che le metto un pò insieme provando da una parte a proteggere i protagonisti reali, dall’altra però a mantenere intatta la dignità della loro storia, la necessità di raccontare la verità che poi è sempre il modo migliore per difendere la dignità, attenersi alla verità, provare a far conoscere attraverso le storie la verità di certe storie.

Perché intitolarlo “L’ignoranza dei numeri”? Cosa significa?

Nel libro ci sono due storie che si intrecciano, una che ha a che fare con un’indagine e l’altra con una protesta per l’apertura di una discarica. Il titolo fa riferimento a qualche cosa che succede in entrambe le storie; relativamente alla discarica e alle proteste fa riferimento ai numeri che cercano di descrivere il danno che apporterà la discarica al territorio, le percentuali che sono delle vite umane quindi i numeri hanno questo limite, leggono la realtà ma non sono capaci di raccontarla senza la giusta interpretazione, sono una fotografia, poi bisogna essere bravi a guardarla. Nel caso specifico si parlava di uno 0,004% come aumento delle malattie tumorali nei territori in cui c’è una discarica laddove avrebbe fatto sicuramente più effetto, raccontando meglio la realtà, parlare di migliaia di morti in più che ci sarebbero stati nei prossimi 10-20 anni. Invece, relativamente alla storia dell’indagine sulla morte di Salvatore o’ Scarrafone, i numeri hanno a che fare con l’emarginazione e difficoltà di certe vite di mettere insieme quello che servirebbe per arrivare a fine mese, sulle statistiche che non riescono a raccontare del tutto la difficoltà di chi vive ai margini della società.

Lei è tra i fondatori delle associazioni culturali Eureka e In-Oltre attraverso le quali promuove la cultura della legalità e la difesa dell’ambiente in particolare nelle scuole primarie e secondarie della periferia vesuviana. Come trova l'approccio dei giovani a queste tematiche e in che modo inculcare il rispetto verso di esse?

Dipende tantissimo dal modo in cui siamo capaci noi di proporle ai giovani, ma questo vale per ogni tipo di insegnamento. Qualsiasi materia alla fine diventa attraente o meno a seconda dell’appeal del professore. Relativamente ai temi ambientali e alla cultura della legalità è fondamentale mostrare le giuste pratiche, essere noi per primi ad avere comportamenti virtuosi che poi siano da esempio a quelli che vogliamo istruire alle giuste pratiche. Non possiamo predicare bene e razzolare male perché i giovani, da questo punto di vista, ci giudicano, anzi io spero soprattutto, vedendo quello che succede nella vita di mia figlia, dei suoi amici e della sua generazione, che loro siano più bravi di noi. Vedo un fermento nei giovani relativamente all’ambiente che mi lascia ben sperare.

(foto di Francesca Carlucci)

Nei suoi libri tratta temi di grande sensibilità pubblica e importanza sociale quali l'emarginazione, l'umanità indifesa, la legalità, la criminalità organizzata, la violenza sulle donne, la pedofilia, l'ambiente. Ha mai riflettuto su quanto la sua scrittura possa contribuire a riflettere per migliorare la nostra società?

Più che a posteriori, a priori scrivo proprio nella speranza di riuscire a dire qualcosa, di insinuare un dubbio o comunque dare inizio a una riflessione nell’esporre. Esprimo tantissimo sperando che il lettore sia giovane, sia qualcuno con il quale poi magari, come succede spesso quando ripasso a scuola, potermi confrontare. La società ha anche un punto di vista diverso rispetto al mio ruolo perché sono comunque realmente un investigatore, un rappresentante delle istituzioni di polizia, e mostrare me stesso in alcune tematiche è una sorta di sospensione del giudizio in maniera da lasciare anche spazio alla riflessione e alla discussione. È una cosa che ritengo positiva soprattutto necessaria per quello che il ruolo che assegno io alla mia di scrittura, fermo restando che non dobbiamo sopravvalutarci troppo nel poter incidere chissà quanto nelle vite di chi ci circonda. Certo è che, come mi è capitato qualche volta, quando poi magari un ragazzo dopo essersi approcciato a una pagina o partecipato a un incontro in cui ci si è conosciuti, in cui magari hanno conosciuto un modo diverso di presentare certe tematiche, poi mi viene a raccontare qualcosa che cambia qualcosa nella sua di vita, ecco che cambiano il senso dei numeri, delle percentuali, ecco che i numeri non sono più ignoranti e quello che un ragazzo su mille riesce a modificare, a cambiare qualcosa in meglio nella sua vita, diventa non uno su mille, ma il cento per cento rispetto alla sua di vita.

C'è un argomento di interesse sociale di cui vorrebbe scrivere in futuro?

Voglio tornare a scrivere di ragazzi e di bambini perché penso che la piaga dell’abbandono, dell’emarginazione - che poi determina pedofilia, abuso dei minori o comunque una devianza che in certe realtà periferiche è diffusa - sia prioritario come tematica perché deve essere un obiettivo primario di uno Stato che si ritenga civile quello di essere presente in quelle vite. Dobbiamo essere gli adulti nella vita di quei bambini che non hanno adulti perché tutti hanno bisogno di guida per poter scegliere e, quindi, per poter gestire davvero la propria libertà di avere una formazione, un’istruzione, un’educazione che li renda poi liberi di poter scegliere consapevolmente il proprio destino.

Che significato assume per lei la parola 'speranza' in una realtà che vede ogni giorno con i suoi occhi nella sua drammaticità?

La speranza è quando qualcosa mi ritorna, quando uno qualsiasi dei ragazzi che riesco a conoscere negli incontri che faccio a scuola poi mi contatta con “Aiutami a fare la cosa giusta” o comunque fa lui la cosa giusta ponendomi un problema, aiutandomi ad entrare in una situazione difficile. La speranza è nei giovani.