Paolo Borsellino, se lo Stato lo avesse salvato 30 anni fa

(di Francesca Carlucci)

19 novembre 2018. Salvatore Borsellino, la voce emozionata rotta dal pianto, ma tenace e forte: "Finchè vivrò continuerò a lottare per il fresco profumo della libertà". Lo ascoltai ricordare - a Napoli presso il Maschio Angioino alla presentazione del libro "La Repubblica delle stragi" organizzato dalle Agende Rosse in Campania - le parole di suo fratello Paolo, ed era come sentire la sua voce, due voci, quella di un fratello al quale, dopo tutti questi anni,  manca la presenza dell'altro nel modo più struggente. 

19 luglio 1992. Una data da custodire impressa nella memoria: 57 giorni dopo la morte del suo amico e collega Giovanni Falcone nella strage di Capaci, in via D'Amelio a Palermo muore Paolo Borsellino. L'auto parcheggiata sotto casa di sua madre salta in aria al suo arrivo. Nell'esplosione perdono la vita anche cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.  

Paolo Borsellino, uomo acuto, serio, dignitoso, lottò contro la mafia ogni giorno affinché se ne parlasse il più frequentemente possibile per conoscerla, studiarla, sconfiggerla, una lotta in cui, come egli stesso affermava, nonostante la paura, l'importante era che questa fosse accompagnata dal coraggio: "Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti". 

Lo sapeva, Borsellino, che la sua vita fosse in bilico ma non si arrese, nemmeno al senso di abbandono da parte dello Stato dopo l’assassinio di Giovanni Falcone: "Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri", dichiarò preoccupato per la sua famiglia e gli uomini della sua scorta, a causa di negligenze che agevolavano la mafia come quella di chiedere più volte agli organi competenti di bonificare i luoghi abitualmente frequentati da lui, soprattutto la rimozione delle auto parcheggiate in via D’Amelio sotto casa di sua madre dove andava almeno una volta la settimana, ma nessuno fece nulla. 

"Borsellino" - afferma il criminologo Vincenzo Musacchio - "se lo Stato si fosse impegnato con tutte le sue forze, poteva essere salvato. Borsellino e lo stesso Falcone sono stati mandati al macello perché isolati e abbandonati da tutti, in primis, da quello Stato che avrebbe dovuto proteggerli ad ogni costo". 

Non è da meno, nelle sue dichiarazioni, sua figlia Fiammetta che in un'intervista rilasciata al settimanale “L’Espresso” ha detto la sua su magistrati e depistaggi: "Quando ho denunciato la solitudine di mio padre e il tradimento da parte dei suoi colleghi ho sentito il gelo intorno a me. Mio padre non è stato ucciso solo da Cosa nostra, ma il lavoro di Cosa nostra è stato ben agevolato da persone che sicuramente hanno tradito. Ci sono uomini che lavorano per allontanare la verità sulla strage di via D'Amelio. Oggi questa verità è negata non solo alla mia famiglia ma a tutto il popolo italiano, il primo a essere stato offeso". 

Paolo Borsellino è andato solo incontro alla morte senza la vergogna di cui si sono macchiati a vita coloro che hanno voltato la faccia dall'altra parte. Tuttavia, la sua vita interrotta 30 anni fa non è mai stata dimenticata perché la sua lotta coraggiosa contro la mafia è arrivata per generazioni fino a noi e andrà oltre affinché il cammino di giustizia, difesa delle idee, contrasto alla violenza e perseguimento della verità non resti un pensiero astratto ma la realizzazione di un impegno costante.  

Se oggi conosciamo il valore della legalità e della lotta alle mafie che attanagliano la nostra società lo dobbiamo a uomini come lui che hanno vissuto integerrimi a testa alta fino all'ultimo respiro: "Io accetto e ho sempre accettato il rischio e le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo in cui lo faccio. Lo accetto perché ho scelto questo lavoro e sapevo sin dall'inizio che avrei corso questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e trovarmi in estremo pericolo, non si disgiunge dal fatto che io creda profondamente nel lavoro che faccio. So che è necessario che io e tanti altri lo svolgiamo e so che abbiamo il dovere morale di farlo senza lasciarci condizionare dalla sensazione, o financo dalla certezza, che tutto questo possa costarci caro".