Alzheimer, storia di una caregiver:
“ Bisogna avere fiducia negli altri ”
Da Catanzaro la testimonianza di Anna: una vita stravolta dalla malattia del marito, la solitudine e un nuovo percorso di resilienza grazie ad un centro diurno. “Ci preparano ai vari stadi della malattia e all’abbandono, ma serve un maggiore sostegno delle istituzioni”
CATANZARO - “Non conoscevo l’Alzheimer: è una malattia devastante anche per le famiglie, e lo è per me che non riconosco più l’uomo colto, divertente, amante del ballo, dei viaggi e dello sport che ho conosciuto quando ero appena quattordicenne”. Anna, sessantotto anni, racconta tra passato e presente, tra ricordi e vita quotidiana, cosa significa prendersi cura, essere caregiver, di suo marito, il compagno di una vita.
In questa storia ambientata in Calabria, a Catanzaro, Anna parte dai suoi quattordici anni, quando si fidanza con Elio, dieci anni più grande: “Ero una ragazzina, e mia madre e le mie zie mi tenevano sotto la loro ala protettiva. Lui ogni tanto mi lasciava per le sue avventure, perché mi voleva “rispettare”, ma poi tornava sempre da me”. Insomma: un amore d’altri tempi, fatto di attese e di pazienza spesso declinata al femminile. Poi il matrimonio, e Anna rimane fedele a se stessa, presente come sempre: “Mio marito amava il calcio, le maratone, la pesca subacquea, faceva di tutto e di più. E io lo seguivo, facevo il tifo per lui, ero sempre con lui. Mi occupavo io degli impegni quotidiani e l’ho sempre supportato, anche quando aveva perso il lavoro prima di entrare in Regione”. Una vita nel segno della devozione, si potrebbe dire. Anche se per Anna, oggi in pensione, in quegli anni c’è pure tempo per il suo lavoro in banca, per recitare con alcune compagnie teatrali catanzaresi, ci sono gli spazi tutti suoi ritagliati tra una faccenda familiare e l’altra.
A un certo punto salta l’equilibrio di un’esistenza scandita tra famiglia, lavoro e interessi personali. Anna va avanti nel racconto a tratti commossa, mostrando con orgoglio le foto di un vascello e di un crocifisso realizzati con delle conchiglie per mano di Elio prima che si ammalasse. Si arriva così al 2013, l’anno in cui emergono le prime avvisaglie del morbo e tutto comincia a cambiare. I primi sospetti “quando non trovava più le chiavi di casa e anziché cercarle mi telefonava agitato mentre ero al lavoro”. Inoltre “più di una volta non ricordava la strada che portava al mare”. Poi quella visita dal geriatra quando “mio marito, che era geometra, faceva persino difficoltà a disegnare un cerchio”. Dunque il chiaro segno di qualcosa di diverso che poco dopo avrebbe avuto un nome: “Alzheimer”. Una malattia considerata la più comune causa di demenze, che solo in Italia colpiscono 1,2 milioni di persone.
“Non conoscevo questa malattia”, dice Anna. “Per me è devastante assistere all’apatia di mio marito quando le figlie vengono a trovarlo o quando gli faccio vedere le partite in tivù. Di mattina - continua - gli faccio la barba e ogni mattina gli metto una maglia diversa, come se dovesse andare in ufficio. Ma è come se lui non si accorga di nulla, sembra che davanti a me non ci sia nessuno”. Con la pazienza e l’amore di sempre, Anna impara pian piano a convivere con la malattia di Elio. E anche “se non è facile e se a volte penso di non farcela”, di passi in avanti ce ne sono. Per prima cosa capisce che “bisogna avere fiducia negli altri” per farsi aiutare. Così decide di rivolgersi al centro diurno di Catanzaro gestito dalla Ra. Gi., la Onlus che ha da poco inaugurato anche una struttura a Cicala, il borgo considerato “amico delle demenze” per via di un approccio di cura basato sul legame con la comunità locale. “All’inizio - spiega la donna - telefonavo sempre al centro per sapere come stava mio marito, mi colpevolizzavo, era come lasciare un figlio all’asilo. Poi però gli operatori mi hanno insegnato a lasciarmi andare. Basta un loro sguardo, o quando mi chiedono cosa è successo, e io mi sfogo, mi rassicuro”.
Con il tempo Anna apprende il significato pratico della malattia e le strategie quotidiane per fronteggiarla.Ad esempio, “al centro mi hanno insegnato che non devo usare i piatti bianchi”, sconsigliati per via di un’alterata percezione delle profondità , e “ho tolto le tende dalle finestre perché mio marito pensava che dietro a esse si nascondesse qualcuno”. Inoltre, una volta al mese, ci sono i “Dementia Cafè”. In occasione di questi incontri promossi dalla Ra. Gi. i famigliari si confrontano con la psicologa e tra loro: “Ci spiegano come farli mangiare, come vestirli, ci preparano a quanto potrà succedere, ai vari stadi della malattia e all’abbandono”. Di più: “Mi insegnano a vivere giorno dopo giorno, mentre prima mi proiettavo sempre nella fase più brutta della demenza, a cose che magari non succederanno” perché l’evoluzione della malattia, a oggi senza cure risolutive, varia da persona a persona.
Il supporto del centro è prezioso, ma non basta. Questa struttura, in quanto centro diurno, restituisce tempo soltanto di mattina, dal lunedì al venerdì, “tempo per fare le mie faccende, per andare dal medico, per pagare le tasse”. “Ma non ho più una vita fuori - si sfoga Anna -. Non posso tornare a fare teatro, non posso pensare a me stessa”. Da qui l’appello per “un maggiore sostegno delle istituzioni” al fine di dare continuità alla presa in carico delle persone con demenze. Ma anche la necessità di recuperare la propria storia rivestendola di nuovo senso, di nuova consapevolezza: “Cercherò l’aiuto di qualcun altro” oltre che del centro “per affrontare meglio le notti a vegliare su mio marito” e “per avere più spazi per me”; “devo riprendere in mano la mia vita e le mie passioni”. “In questi casi - racconta Anna - devi pensare un po’ di più a te, altrimenti muori prima tu e ti annulli come persona”. (Francesco Ciampa da R.S.)