Scuola e disabilità: cosa dice la legge per l'inclusione

(di Antonella Carta)

Scuola e disabilità, un argomento non facile da affrontare. 

Non sempre, infatti, la scuola risulta veramente inclusiva per gli alunni con disabilità. 

Vero è che adesso si presta molta più attenzione alla formazione di personale che si possa occupare in modo adeguato di chi ha difficoltà maggiori rispetto ai compagni normotipici, ma ancora troppo spesso la teoria poco si coniuga poi con la pratica. 

Ad approfondire l’argomento è l’avvocato Enrico Orsolini, presidente di "Associazione Autismo Oltre" e padre di Riccardo, ragazzo con autismo, da anni impegnato nel sociale e in particolar modo nella tutela dei diritti delle persone con disabilità.

La scuola – sostiene – è la prima agenzia sociale, esterna alla famiglia, che si occupa di disabilità. È il luogo in cui i nostri figli hanno il primo contatto con la società extrafamiliare e, purtroppo, non sempre al suo interno si realizza vera accoglienza. 

Capita infatti che l’alunno disabile trascorra troppo tempo all’esterno dell’aula, in aulette di sostegno più o meno improvvisate. Di contro, ci sono insegnanti, di sostegno e curriculari, che sanno discernere il momento in cui portarlo fuori per venire incontro alle esigenze sue o della classe, ma solo per un tempo limitato. 

Ma a fronte di questo tipo di insegnanti, in genere disponibili a un dialogo vero e costruttivo con le famiglie, ne rimangono ancora diversi che si chiudono nel bunker di ciò che hanno appreso sui libri e pretendono di applicarlo meccanicamente, senza un autentico confronto con le famiglie. 

L’avvocato Orsolini prosegue: Il contatto con le famiglie degli alunni con disabilità dovrebbe essere previsto già nei vari TFA (corsi di formazione per insegnanti di sostegno) che invece si limitano il più delle volte a fornire una preparazione libresca e puramente teorica, non tenendo conto dell’esperienza diretta di chi vive la disabilità quotidianamente. La scuola dovrebbe tener conto del fatto che quasi sempre un alunno con disabilità viene da un pregresso percorso terapeutico-riabilitativo, e che a partire da questo occorrerebbe programmare gli interventi didattico-formativi per l’alunno in questione, altrimenti scuola e famiglia remeranno in direzioni opposte, a danno proprio della persona che ha più bisogno di un intervento sinergico che possa aiutarla nel difficile cammino verso l’acquisizione di maggiori autonomie. 

Il tempo trascorso a scuola è fondamentale per ogni alunno e andrebbe impiegato sempre validamente. A tale scopo, utile sarebbe da parte della scuola consultare preliminarmente l’esperto esterno che già conosce il bambino per essersi occupato di lui prima e al di fuori dell’ambito scolastico e concordare insieme il percorso educativo più valido per il singolo alunno con disabilità. 

Non a caso – aggiunge l’avvocato – le Linee guida nazionali sul Progetto di vita (ex art.14 legge 328 del 2000) affermano che il PEI (Progetto educativo individuale) dovrebbe essere una parte del più generale Progetto di vita e quindi inserito e coordinato con esso. E, anche se non scritto, non si può certo sostenere che non sia comunque un progetto di vita il percorso riabilitativo avviato dalla famiglia con la collaborazione di esperti del settore anche prima dell’ingresso nei vari ordini di scuola. 

Anche per chi coordina dall’interno le attività del singolo Istituto scolastico, però, il lavoro non è facile, con un numero non esiguo d’insegnanti di sostegno che completano il quadro docenti solo ad anno scolastico ampiamente iniziato, o insegnanti con incarichi annuali che, quindi, non garantiscono la continuità didattica. In caso di presenza di un disabile grave, la classe dovrebbe essere composta da un numero limitato di alunni, ma quante volte la realtà corrisponde all’indicazione di legge? 

L’intervento e la cooperazione degli insegnanti – conclude – sarebbero essenziali anche nella determinazione del numero di ore di assistenza alla comunicazione e all’autonomia di cui necessita il singolo alunno, soprattutto quando non è il primo anno che fa parte della classe. Chi meglio di loro può avere contezza di quante ore di Asacom necessita il progetto educativo che hanno intenzione di mettere in atto? Purtroppo però a volte i Comuni, da cui gli Asacom dipendono, finiscono col ridurre il numero di ore indicate dal GLHO (Gruppo di lavoro per l’handicap) perché non hanno sufficienti risorse economiche. D’altra parte la battaglia degli Asacom, portata avanti anche con il supporto dei sindacati, per l’internalizzazione del servizio all’interno del Miur (Ministero dell’Istruzione), se comprensibile per alcuni aspetti, va a detrimento dell’interesse stesso degli alunni e delle famiglie che perderebbero in tal caso il diritto a scegliere l’assistente che ha mostrato empatia col loro figlio perché il criterio per l’assunzione diventerebbe il mero scorrere delle graduatorie. Forse una soluzione per questo tipo di personale che legittimamente combatte per avere più diritti, potrebbe essere assumerli a regime come dipendenti comunali, ma anche questa è questione non facile da risolvere. 

Spesso le famiglie sono costrette a ricorrere ai tribunali per avere riconosciuti i propri diritti e questa è una distorsione del sistema perché purtroppo i tempi della giurisprudenza non corrispondono con quelli dell’inizio dell’anno scolastico. I genitori devono comunque sapere che, in caso di mancato riconoscimento dei diritti del proprio figlio, quella legale è una via da percorrere, anche se spesso troppo lenta. 

In conclusione, per parafrasare le parole dell’avvocato Orsolini, la scuola, come prima agenzia sociale, dovrebbe essere il crogiuolo delle diversità, e gli stessi alunni normotipici e non, insieme agli insegnanti, dovrebbero studiare una nuova materia, l’Inclusività. Perché se si crea un ambiente inclusivo, è molto probabile che si possa realizzare una vera inclusione.